Scuote di dosso il sonno e la pigrizia,
fa correre nei nervi un gran bisogno di agire..."
"Primi nelle cariche al suono delle loro trombe e primi anche a morire"
La parola fanfara deriva dall'arabo "fanfar" che significa rumore, suono di trombe. Il termine venne poi adottato per indicare un concerto di soli ottoni. Adeguando il suono della tromba al ritmo veloce dei suoi passi, il trombettiere ha trasformato i segnali da lenti e solenni in vibranti squilli di guerra. Egli era impiegato anche per annunciare il passaggio dei bersaglieri per le strade della città. Quando smetteva il trombettiere in testa, riprendeva il secondo e poi il terzo fino a ripetere il giro. In questo modo il suono aveva una certa continuità, il reparto non rimaneva senza l'accompagnamento musicale. Subito piacquero alla gente che li seguiva. l primi dodici, inquadrati con la carabina sulle spalla sinistra, i corni da caccia sulla destra, marciavano e suonavano una musica allegra incitando a correre sempre più forte. Dalla prima sfilata dei bersaglieri che li vide nel 1836 era ufficializzata la presenza di tredici trombe, di un caporale trombettiere per ogni compagnia che a quei tempi disponeva di una cavalcatura. Il compito del trombettiere comprendeva mansioni di portaordini e spesso partiva di corsa a consegnare la missiva. Il trombettiere era la voce del capitano. La vita dei bersaglieri inquadrati in una fanfara è molto dura, basata su disciplina ferrea, allenamento continuo alla musica e alla corsa, cameratismo fraterno e ginnastica quotidiana.
I BERSAGLIERI | I Bersaglieri furono, per così dire, inventati da ALESSANDRO FERRERO DELLA MARMORA nel 1836. Li inventò per dotare l' esercito SARDO, di reparti speciali capaci di compiere azioni caratterizzate da spiccata celerità e precisione, da temerario ardimento, da comportamento morale irreprensibile. ... Reparti che dovevano intervenire nella battaglia al momento decisivo e che nelle esplorazioni dovevano con certezza individuare il nemico per lanciarsi primi all' assalto; dovevano essere costituiti da uomini dotati di oltre che da comportamento morale esemplare, da un fisico eccezionale, sano e resistente alla fatica. LAMARMORA esaminò le peculiarità più scintillanti del temperamento italiano e scelse i nuovi soldati fra quelli che ne avevano le qualità più spiccate. "Gli uomini dovevano essere scelti dai 19 ai 25 anni, della statura media di 1,72 mt , forti agili di sana costituzione ; di perfetta condotta, intelligenti oltre la media, esperti nel tiro al massimo. Dagli Ufficiali richiedeva somma capacità ed attività, cosa rara a quei tempi in cui si optava per la divisa perché piaceva ed apriva le porte dei salotti buoni. Il vestiario, l' arredo e l' armamento erano stati realizzati in maniera tale da rendere i Bersaglieri spediti nelle marce e nel combattere". Si richiedeva inoltre un temperamento, che tutt' ora contraddistingue il Bersagliere, portato ad andare "oltre" non perché impetuoso, tracotante o indisciplinato, bensì perché coraggioso e deciso ad arrivare dove mai nessuno fosse giunto precedentemente. LAMARMORA li addestrò a quei compiti, li educò a quel contegno e li lanciò in battaglia. Ne risultarono reparti nuovi, vivacissimi nell' agire, nel muovere, nel combattere; reparti nei quali gli Italiani del Risorgimento ben presto si riconobbero. Data la grande carica di ammirazione e di simpatia che suscitavano, furono imitati da quei giovani che possedevano le stesse doti e d erano entusiasmati dagli stessi ideali maturati in quei tempi di fermenti patriottici; siamo agli albori dei moti risorgimentali 1820 - 1836. Si formarono così, in ogni stato e per le più disparate esigenze belliche, gruppi di volontari che si autonominavano "Bersaglieri" e che come questi si addestravano alle stesse tattiche ed ai medesimi compiti. Il nome dei loro reparti derivava spesso dalla zona di reclutamento, così ci furono i Bersaglieri "Lombardi", "i Valtellinesi", "i Liguri", oppure presero il nome dei loro comandanti e si ebbero, per citare i più noti, il "Battaglione Mameli", il "Battaglione Menotti Garibaldi", il "Battaglione Manara" dei Bersaglieri Lombardi ecc. e divennero così con le loro specifiche peculiarità dei veri e propri soldati di popolo. Tali reparti indossavano le più strane ed eterogenee divise. A proposito di uniformi, è bene precisare che anche il più piccolo particolare fa parte della tradizione cremisi: le trivelle verdi (o cordoni) nate per reggere la fiaschetta delle polveri, la sciabola ricurva degli ufficiali che all' inizio montavano a cavallo, i guanti color nero come la divisa per favorire la mimetizzazione, il cappello a larga tesa per riparare gli occhi dai raggi del sole e dalla pioggia e quindi poter puntare al bersaglio in qualsiasi condizione. La tradizione del Corpo dei Bersaglieri nella storia d' Italia non è legata soltanto alle gesta e alle glorie sui campi di battaglia, dalla Crimea alla Cina, dall' Africa alla Russia, ma anche alla prontezza, allo spirito di sacrificio ed alla capacità con cui dimostrarono il loro senso di altruismo e la loro generosità nell' accorrere in soccorso delle popolazioni colpite da calamità sociali e naturali. Il Bersagliere vive, opera combatte nello spirito della tradizione; nella tradizione sta la sua forza, la sua capacità di rinnovarsi continuamente con il presentarsi di compiti e scenari nuovi. Chi abbraccia la filosofia di vita dei Fanti Piumati, lo fa per tutta la propria esistenza. La voglia di fare non mancherà mai ad un Bersagliere, egli troverà sempre nuovi stimoli, nuovi traguardi da raggiungere ed oltrepassare. E dove non potrà giungere di persona lo faranno i suoi figli, i suoi nipoti. Questa è la filosofia dell' animo bersaglieresco; è questa la tradizione che conferisce ai Bersaglieri quel "qualcosa in più" che è spirito, simpatia, orgoglio, efficienza, baldanza fisica, allegria. Sono quell' insieme di cose indefinibili, incomprensibili che colpiscono il cuore e che in un turbinio di corse veloci al suono delle fanfare, carezzati dal soffio incoraggiante delle piume, innalza i Bersaglieri oltre la soglia delle umane cose, in quella parte del cielo ove storia e leggenda si confondono creando il mito dei FANTI.
IL FONDATORE | ALESSANDRO FERRERO DELLA MARMORA FONDATORE del CORPO dei BERSAGLIERI
Nato a Torino il 27 Marzo 1799 Morto in Crimea il 17 Giugno 1855
1809 - 11 agosto - paggio di S. A. il principe Borghese. 1814 - sottotenente nei Granatieri Guardie. 1815 - fece la campagna di Grenoble cambiando col porta-insegna Pagliano del quale nome si servì per rispondere all'appello, ciò che gli fece dare tale stranome, che sempre conservò 1817 - luogotenente d'ordinanza nel reggimento Guardie. 1821 - decorato della croce dei SS. Maurizio e Lazzaro per la sua condotta a Novara. 1823 - capitano nel reggimento Guardie. 1836 - maggiore nel , corpo dei bersaglieri che aveva creato e organizzato lui medesimo. 1840 - luogotenente colonnello comandante dei bersaglieri. 1844 - colonnello comandante i medesimi. 1848 - fece la campagna di Lombardia, nella quale fu ferito a Goito per il che gli fu data la medaglia d'argento e fu fatto commendatore dei SS. Maurizio e Lazzaro. 1848 - maggior generale comandante i bersaglieri. 1849 - cavaliere Gerosolimitano di Malta. 1849 - fece la campagna di Novara in qualità di capo dello stato maggiore generale. 1852 - luogotenente generale comandante la divisione di Genova ed ispettore del Corpo dei bersaglieri. 1852 - gran cordone dei SS. .Maurizio e Lazzaro. 1853 - decorato dell'Ordine di prima classe del Nisciam di Tunisi. 1854 - 1 luglio, si maritò a Genova con la nobildonna Rosa Roccatagliata, vedova Rati Opizzoni, che mori alli 7 settembre 1865. 1855 - comandante la II divisione del Corpo di spedizione in Crimea. 1855 - 7 giugno, giorno deI Corpus Domini morì in Kadikoi, in Crimea, nelle prime ore del giorno in seguito ad un attacco di colera, assistito dal cappellano e munito dei conforti religiosi. Venne sepolto a Kadjkoi, assieme ad altri compagni per cui venne innalzato un piccolo monumento. Era uomo valoroso, intraprendente, vivace e leale. Visse 53 anni.
ALESSANDRO FERRERO DELLA MARMORA | Ottavo figlio vivente del marchese Celestino e di donna Raffaella di Berzè, è nato in Torino nella triste annata 1799, il 27 marzo; si era all'epoca dell'occupazione francese con le mille imposizioni ed i disastri d'una guerra. La Corte aveva dovuto fuggire nel dicembre 1798; al Suo seguito era partito il cavalier Tomaso (Della Marmora, fratello del marchese Celestino e gentiluomo della regina Maria Clotilde). Si diceva che il marchese Celestino sarebbe stato deportato in Francia. La gravidanza della marchesa trascorse fra quelle ansie terribili ; ma per fortuna sua, dotata di una forte costituzione, diede felicemente alla luce quel bambino, che fu il benvenuto poichè era stato preceduto da quattro femmine. Era così grazioso, così leggiadro dì forme che sua madre volle nutrirlo essa stessa, e di fatti vi si accinse. Ma nel mese di giugno gli austro-russi bombardavano ed occupavano la cittadella, discacciandone i francesi ed alla fine di maggio il marchese Celestino si era risolto a rimanere a Torino col suo vecchio zio Paolo ed alcune vecchie e fidate persone di servizio ed a mandare la moglie coi figli a Biella. Siccome quel viaggio non avrebbe durato meno di tre giorni fu necessario dare il piccolo Alessandro a balia ad una donna fidata della collina di Torino che aveva già allevato due figli della baronessa Perrone ed il conte Alberto Della Marmora; quella era la famosa Pacotta; morta poi in tarda età. Si può dire che quel bambino abbia succhiato col latte l'odore del cannone (sic), poichè nell'anno successivo 1800 i francesi, con la battaglia di Marengo, riconquistavano il Piemonte. Il bimbo fu ritirato in casa dove rimase mentre la madre allattava il piccolo Edoardo (1800-1875); erano sempre entrambi nelle braccia del padre loro, che per dimenticare le disgrazie politiche li teneva sempre con sè, mentre i due maggiori stavano sotto un buon precettore. Il piccolo Alessandro era vezzoso e pieno di spirito: la morte di suo padre fu per lui una gran perdita, ma aveva appena sei anni e non fece su di lui grande impressione. Cominciò i suoi studi sotto la guida delle sorelle verso le quali si mostrava docile. Nel 1809 i suoi due fratelli maggiori erano già collocati in reggimenti francesi. In quanto a lui fu nominato paggio di S. A. il principe Borghese, governatore del Piemonte; erano dodici paggi a palazzo Chiablese, diretti dal conte Provana, che non risparmiò nulla per dare loro una buona educazione. Nel 1814, quando ebbimo la nostra restaurazione in Piemonte, il giovane Alessandro non aveva che quindici anni; fu nominato sottotenente nel reggimento Guardie sotto il colonnello marchese Del Borgo e sotto il conte Alberto, che vi era come luogotenente. Era il più felice degli uomini, poichè era militare nell'anima; perciò si fece subito distinguere. Era ancora fanciullo quando una giovanetta, la signorina di Sordevolo, gli diceva: " mi dovresti sposare"."molto volentieri " le rispondeva lui "ma aspetta che abbia perduto un braccio in una grande battaglia ". La campagna di Grenoble, nel 1815, esercitò un grande fascino su di lui ; egli non era compreso tra coloro che vi dovevano prendere parte. Orbene, si mise in quattro e tanto fece che ottenne che un vecchio ufficiale subalterno, a nome Pagliano, gli cedesse il suo posto come porta insegna. A Grenoble ci fu poco da fare, perchè la battaglia di Waterloo fu decisiva per la sorte di Napoleone ed assicurò all' Europa, una pace durevole; ma siccome egli era molto vivace, molto ardimentoso e buon tiratore gli successe a Grenoble che una carica di polvere gli scoppiasse fra le mani, offendendogli gli occhi al punto che fu in pericolo di perdere la vista; gli rimase però un certo deturpamento agli occhi che alterò la regolarità dei suoi tratti. Perdette pure una falange di un dito; che dovettero amputargli; non volle tenere il letto e se ne tornò da Grenoble con gli occhi e le mani in cattive condizioni, ma sempre in testa alla sua. compagnia, con la bandiera in mano; ciò che gli valse il soprannome di Pagliano, che sempre gli rimase. Percorse regolarmente tutti i gradi della sua carriera, senza. mai lagnarsi; gli facevano solamente un appunto di preferire la caccia e la vita campestre a, quella dei salotti; era talmente resistente alla caccia che gli avvenne di partire di mattina da Biella cacciando e di arrivare la sera a Torino; aveva fatto colazione in famiglia e pranzato dalla contessa Seyssel (sua sorella). Ma siccome era coscienzioso nell'adempimento dei suoi doveri, i suoi superiori gli volevano bene e facevano sempre assegnamento su di lui per qualunque affare un po' delicato. Era ingegnoso ed aveva un tornio col quale eseguiva graziosi lavoretti ; aveva pure una fucina con la quale si faceva mille utensili per la caccia; leggeva molto e fin d'allora cominciava a sognare ai bersaglieri che furono sue creature ed i suoi figli prediletti. Il 1821 lo trovò al suo posto in quartiere ed ebbe occasione una sera di reprimere un piccolo movimento sedizioso; ricevette allora un colpo di calcio dl fucile nello stomaco; ma ai suoi incitamenti, ai quali si aggiunsero quelli del cav. Vialardi, l'ammutinamento cessò; ricevette in ricompensa la piccola croce di San Maurizio. Il colonnello Vialardi, lo tratteneva notte e giorno presso di lui in quartiere. La battaglia di Novara pose presto un argine alla rivolta; le Guardie arrivarono la sera stessa a Torino, ed il giovane Alessandro era tra i primi. Promosso capitano e più tardi maggiore, si diede a viaggiare; due occupazioni lo assorbivano: l'organizzazione dei suoi bersaglieri e l'agricoltura. Alla morte di sua madre, avendo avuto per la sua parte dei terreni presso a Torino, se ne occupò anche troppo; delle controversie per irrigazione gli procurarono mille fastidi ed altrettanti processi; il che, complicato con le sue occupazioni militari, gli creò non pochi imbarazzi; doveva trovarsi a Torino e a Genova; fini per trascurare i suoi affari; si lasciò così imbrogliare e rubare. Dovette allora vendere i suoi beni per non più pensare che ai bersaglieri ; questi furono da principio oggetto di molte critiche. Il Re Carlo Alberto, che non se ne intendeva, glieli permise come esperimento, ma poi differiva sempre nell' aumentarne il numero. Fu alla parata del 1842, in occasione delle nozze del Duca di Savoia, che i principi austriaci ne rimasero colpiti, meravigliati e non parlavano che della bella tenuta dei bersaglieri. D'allora in poi ottenne qualche concessione. l francesi avevano essi pure creato i "Cacciatori di Vincennes" e due ufficiali vennero a Torino per prendere accordi col maggiore comandante Della Marmora, ciò che fece tacere le critiche. Le campagne del 1848 e 1849 dimostrarono la grande utilità pratica dei bersaglieri. Il cav. Alessandro non potè partire che tra gli ultimi per l'armata, ma appena giunto assalì il nemico a Goito e fu gravemente ferito. Al primo momento il suo stato parve disperato; ma poi il suo coraggio e la sua forte costituzione ebbero il sopravvento e si ristabilì alla meglio; poichè il proiettile, partito da una finestra gli avevo trapassato da parte a parte entrambe le guancie, lacerandogli la bocca e asportandogli parecchi denti. Rimase per un paio di mesi in grave stato, ma a forza di pazienza e di cure tornò in forze; egli si era intanto costruito da sè una fascia in ferro per tenere unite le due mandibole; siccome avevano dovuto estrargli molte schegge d'osso gli era rimasta una cavità in una delle guancie; non poteva trangugiare che alimenti teneri, perciò si era fatto un coltello a sega per tritare le carni. La campagna del 1849 lo trovò uno dei primi al suo posto; benchè avesse avuto due cavalli uccisi sotto di sè alla vigilia, a Mortara ebbe una forte contusione in una gamba, che medicò egli stesso con del fango. Con l'abdicazione e con la fuga di Re Carlo Alberto sembrò che dovessero cessare le ostilità; si cominciava appena a tirare il fiato quando giunse in famiglia la notizia che il generale Alfonso La Marmora, che si diceva essere stato trattenuto di proposito a Piacenza, aveva ricevuto l'ordine di marciare su Genova per reprimervi la rivoluzione. Il generale Alfonso chiese in aiuto suo fratello Alessandro coi bersaglieri; i quali fecero prodigi durante quel piccolo assedio, confermando l'utilità di quell'arma; ne fu raddoppiato il numero alla grande soddisfazione del cav. Alessandro, che ne conservò la direzione, e fu nominato maggior generale comandante a Genova, dove era adorato. Fu poi promosso luogotenente generale e decorato del gran cordone di San Maurizio nel 1852; aveva avuto la croce di commendatore dopo Goito. Nel 1852 andò in Sardegna per ispezionare i bersaglieri; in una caccia data in suo onore gli capitò di dovere montare un cattivo cavallo che lo fece cadere su di una roccia, spezzandogli due coste. Tornò tosto a Genova dove stette seriamente ammalato, ne poteva stare in riposo a letto. Lo dovevano fasciare in piedi; ciò nonostante si ristabilì ed anche perfettamente. La morte di sua sorella Enrichetta, di sua sorella Seyssel grandemente lo addolorarono, ma più ancora la malattia e più tardi la morte del suo fratello primogenito. In quel momento egli si disponeva a celebrare il suo matrimonio con la vedova Opizzoni, Rosetta Roccatagliata; tutto era già concertato; era suo desiderio di installarla convenientemente nel palazzo ducale, appena restaurato, ed aveva fatto del suo parecchie spese nell'appartamento che gli era stato destinato. Ma il matrimonio fu rimandato al mese di giugno, cioè fin dopo il lutto di suo fratello, al quale era tanto affezionato. Nell'estate di quello stesso anno dovette recarsi a Torino per sgomberare e lasciare il suo modesto appartamento da scapolo a suo nipote Guido. Oltre a tale strapazzo, aveva pure lavorato a galvanizzare dei bronzi e tra questi una statuetta fatta da lui, che si proponeva di mandare all'esposizione; ma come il tempo gli mancava sempre dovette rassegnarsi a portare tutto il suo materiale a Genova. Nell'estate e nell'autunno del 1854 ebbe sulle braccia tutto l'affare del colera. Fu lui l'anima di tutti i servizi per la cura e l'assistenza degli ammalati. Sua moglie stava sulle spine nel vederlo tanto esposto ed ella stessa ebbe una minaccia del morbo e fu lui a curarla con successo. Ma l'orizzonte si oscurava; lo consultavano spesso sulla spedizione di Crimea ; egli vi si rassegnò come ad una necessità, ma non si dissimulava che quella guerra sarebbe stata lunga e più pericolosa ancora per le malattie. Nel 1855 venne a Torino, in marzo, per presentare sua moglie alla famiglia perchè vi trovasse un appoggio. Quella disgraziata Rosetta piangeva come se avesse avuto il presentimento della sua sventura. Prima di partire volle dargli egli stesso tutte le indicazioni per la liquidazione della pensione dopo la sua morte. Per quanto ella non volesse sentirne parlare, egli le lasciò un opuscolo relativo alle pensioni, avvertendola che aveva pagato in anticipo quattro mesi delle sue piccole elemosine ed i sussidi pei suoi bersaglieri. Il 20 maggio s'imbarcava per Balaklava ed il 7 di giugno era già spirato. E' morto di colera; privo di tutto poichè era appena sbarcato. Per fortuna è stato assistito da due sacerdoti, l'hanno sepolto nei dintorni sopra un monticello della Tchernaia ; aveva 53 anni e due mesi ed era sposato da undici mesi. Chi era stato incaricato di redigere il suo atto di morte non riesce a fìrmarlo; colpito di colera, muore a sua volta; sicchè colui che firmò al suo posto dovette constatare il secondo decesso, per poter redigere e spedire l'atto di morte. Biografia tracciata dalla sorella di Lui Elisabetta, moglie del marchese di Massel di Caresana. Traduzione italiana dall'originale in lingua francese.

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